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150 anni portati male

Pubblicato il: 28/03/2011 14:50:00 -


Non so se c’è da festeggiare o da stare a lutto. So solo che l’Italia non poteva essere unita, e allo stesso tempo non poteva non esserlo. Questo perché la nostra Unità è di tipo culturale, ma non di tipo politico o sociale.
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A spegnere 150 candeline ce ne vuole. Maggiormente se spesso non sono candeline, ma candele, ceri funebri, candelotti… Proprio sul celebre social network di Zuckerberg in queste ore si sta consumando una vera e propria lotta iconica. Alcuni espongono il nastrino a lutto, molti la bandiera italiana, alcuni addirittura l’effigie dei Borboni, altri il simbolo dei 150 anni, e così via. Tra trincee opposte, è bene chiarirci qualcosa.

Perché i 150 anni di Italia unita ci dovrebbero indurre al lutto? E perché, invece, all’orgoglio? Per rispondere alla prima domanda basterebbe leggere qualche opuscolo di quelli che si trovano in questo periodo. Per esempio, “Terroni” di Pino Aprile, “Polentoni” di Lorenzo Del Boca, e così via. Per rispondere alla seconda domanda, invece, basta leggere qualsiasi libro scritto in lingua italiana. Da Alighieri a Paolo Giordano, passando per le centinaia di perle della penna italiana. Per rispondere alla seconda domanda, ancora, basta sfogliare un catalogo di tutte le opere d’arte in Italia, di tutti i musei, i siti archeologici, le chiese, le città d’arte. Per rispondere alla seconda domanda, infine, basta sfogliare qualche libro di storia del diritto, basta intuire la struttura dell’Occidente.

Insomma la geografia ha creato lo stivale, la cultura ha creato l’Italia, Cavour (con sua cugina e il suo re) ha fatto Una Italia, e nessuno ancora ha fatto gli italiani. In altre parole, Dante ci ha resi una nazione (e nel senso pieno del termine anche Machiavelli), Camillo Benso e Garibaldi ci hanno reso uno stato, e chi ci ha mai resi un popolo unito? Forse ancora nessuno.

Perché il problema è fondamentalmente uno: l’Italia è la terra che meglio ha saputo coniugare il carattere mediterraneo a quello germanico, la cultura greca a quella transalpina, a quella slava, a quella iberica, a quella francese, l’orientalismo arabo al nordismo celtico. E questa miscellanea incredibilmente densa di esperienze non poteva non creare problemi, e al tempo stesso non poteva non fornire un potenziale incredibile. Noi siamo l’unica nazione al mondo la cui lingua è una lingua culturale. Il nostro non è un idioma del volgo, ma è il perfetto compromesso tra il lessico di Dante, la prosa del Boccaccio e la poesia di Petrarca, con gli eleganti accorgimenti di Pietro Bembo, gli arricchimenti di Manzoni e gli esperimenti dell’età moderna. La nostra lingua è invidiata e studiata in tutto il globo, è l’unica lingua che può accompagnare uno spartito musicale e la stragrande maggioranza dei libri gastronomici del mondo.

Ma non finisce qui. Siamo il paese al mondo con la maggiore concentrazione possibile di opere d’arte. L’intera Spagna ha il numero opere d’arte che ha solo la nostra Toscana! Ci reggiamo sui musei, sui siti archeologici, sull’arte di ogni periodo. Se noi non esistessimo, l’arte non avrebbe neppure il significato che ha oggi!

Abbiamo creato il diritto ed esportato la giurisprudenza in tutto il mondo, plasmato l’occidente, diffuso il nostro alfabeto in quasi tutte le terre emerse.

Abbiamo inventato l’Umanesimo e il Rinascimento. Abbiamo saputo coniugare Platone, Cristo e Cesare e proporli come modelli per l’ideologia dell’intero mondo moderno occidentale.

E fin qui, tutte soddisfazioni. I problemi vengono dopo. A meno a partire dal 17 marzo 1861…

Il ritratto odierno, quello che il nostro governo cerca di dipingerci quotidianamente, è che dall’unificazione c’è un Nord iperattivo e sviluppatissimo e un Sud in un dormiveglia lamentoso, trascinato per virtù solidaristiche dai generosi cugini polentoni. Mai più grande menzogna fu raccontata!

Basti guardare i dati, proposti da Francesco Saverio Nitti, economista e presidente del Consiglio dal 1919 al 1920. Egli scoprì che del patrimonio del Regno d’Italia, la percentuale di moneta circolante proveniente dal Regno delle Due Sicilie costituiva 65%, rispetto al 14% dello Stato Pontificio, al 12,9% del Granducato di Toscana, al 4% del Regno di Sardegna, e al 4% del resto.

Dunque l’estrema maggioranza delle ricchezze del Regno d’Italia provenivano dallo “sfortunato e sfaccendato Sud”. Si potrebbe obiettare che era ricco il re di Napoli, non i meridionali, ma qui si parla di “moneta circolante”, dunque di ricchezza reale e dinamica. Il Regno delle Due Sicilie era un Regno ricco e fiorente: vantava moltissimi primati, tra cui la prima ferrovia d’Italia, il più antico teatro moderno del mondo, la prima scuola militare italiana, una biblioteca di corte incredibilmente fornita, il primo acquedotto moderno (i famosi ponti della Valle, di Vanvitelli), il sistema pensionistico all’avanguardia, la prima Accademia di Belle Arti e quella di Architettura, le prime “sentenze con motivazione scritta”, l’istituzione della raccolta differenziata, il primo codice marittimo e militare del mondo, il primo osservatorio astronomico, il primo telegrafo ad asta d’Italia, la prima nave a vapore e la prima crociera d’Italia, la creazione di realtà per il recupero del degrado e lo sviluppo liberale della società come a San Leucio, vicino Caserta, e così via. Purtroppo, però, dopo la resa del re napoletano a Gaeta nel 1861, un’enorme quantità di industrie del Meridione fu letteralmente smantellata e trasferita al Nord, così come denaro, investimenti e progresso. La terra rimase ai signori e le industrie passarono “agli italiani”.

Ci sarebbe tanto altro da dire. Per esempio le terribili uccisioni al Sud nel periodo post-unitario. Si contano più di 10.000 persone uccise al Sud dal nuovo governo d’Italia: i morti di tutte le guerre risorgimentali messe insieme!! Bollati sbrigativamente col termine “briganti”, qualunque fosse il motivo della loro azione, gli anti-unitari venivano condannati in pochi minuti, praticamente senza processo, e torturati nel primo lager della storia: il carcere di Fenestrelle. Senza parlare, poi, delle uccisioni di innocenti, come nell’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni.

“Altro che Italia! Questa è Affrica! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile” scrisse il piemontese Cialdini a Cavour nel 1860.

Tra l’altro, al Sud l’assenza dello stato, delle forze dell’ordine efficienti e della burocrazia creò la necessità di una forma di autocontrollo casalinga e sub-statale che nel giro di poco si strutturò come una vera e propria potenza doppia, che oggi chiamiamo: Camorra e Mafia, con tutte le discendenti affiliate.

Tuttavia, il Regno delle Due Sicilie risultava uno stato retrogrado socialmente e diplomaticamente. L’attività diplomatica era quasi del tutto bandita, la borsa di Londra aveva rifiutato ogni contatto con Napoli, le disparità sociali erano marcatissime, il latifondo dilagava. Ma altrove, in tutti gli altri staterelli italiani, le cose non erano certo migliori, con la sola differenza che Ferdinando prima, e Franceschiello poi (gli ultimi due Re di Napoli), non vollero mai essere dei veri politici, ma solo dei pater familias bigotti e provinciali, incapaci di scorgere qualsiasi cosa oltre al loro naso.

Insomma il nostro Sud dall’Unità ci ha guadagnato (oltre al ritorno sul mercato e alla permanenza in uno stato forte e competitivo in Europa): malavita, povertà, arretratezza, morte, disoccupazione. Insomma, chi ci ha rimesso di più non è stata certo la Padania! La Padania, mai esistita storicamente come entità autonoma e unitaria, ha giovato incredibilmente dalla ricchezza industriale e monetaria che veniva dai poveri terroni.

È vero anche che il Sud non è stato poi fortunato. In effetti, Cavour aveva in mente un piano per lo sviluppo del Sud come polo commerciale d’Italia (a partire dal porto di Napoli), ma Cavour morì ben presto. Calamandrei prevedeva che se il Meridione avesse avuto due decenni in più prima della Grande Guerra avrebbe raggiunto lo sviluppo del Nord, ma purtroppo la Guerra arrivò prestissimo. È vero che la Storia non si fa con i “se” e con i “ma”, ma i “se” e i “ma” ci aiutano a capirla.

Insomma, non so se c’è da festeggiare o da stare a lutto. So solo che sono un cittadino europeo, di formazione italiana e cuore meridionale. Cultura sannita e radici partenopee. So solo che l’Italia non poteva essere unita, e allo stesso tempo non poteva non esserlo. Questo perché la nostra Unità è di tipo culturale, ma non di tipo politico o sociale!

Ecco perché è quanto mai necessario un federalismo vero, come quello americano o svizzero. E non un semplice redde rationem delle poltrone del Nord. Ma questa è un’altra storia.

So solo che se tanti italiani, in queste ore, stanno lottando dialetticamente tra la trincea degli orgogliosi e quella dei perplessi, tra regionalisti e nazionalisti, studiosi e pensatori, allora forse un po’ di orgoglio per essere italiani possiamo anche provarlo. Anche solo per avere il coraggio di pensare.

Gianclaudio Malgieri

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